Intervista a / Interview with Frank Gehry | The Plan
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Intervista a / Interview with Frank Gehry

Frank Gehry

Intervista a / Interview with Frank Gehry
Scritto da Nicola Leonardi -

Nicola Leonardi - Lei ha progettato numerosi musei, teatri e spazi pubblici. Questi l’hanno portata in contatto con artisti e scultori, musicisti e intellettuali. Lei stesso è molto più di un semplice architetto, come un “umanista” del XXI secolo: artista, scultore, progettista e pensatore. Secondo il suo punto di vista, in che modo “le arti” si relazionano reciprocamente, nel senso più ampio del termine?
Frank Gehry - Le varie forme d’arte prendono ispirazione l’una dall’altra, credo, e durante i miei primi anni di attività fui in rapporti stretti con la Art Room di Los Angeles. Loro furono per me una sorta di supporto concreto all’inizio del mio lavoro. Amo l’arte, sono un collezionista. Sono davvero legami importanti. Ho vissuto con la musica classica, mia madre suonava il violino, e quando ero bambino mi portava a vedere i suoi concerti. Ho ascoltato musica durante tutta la mia vita, e tuttavia sono un dilettante, non un musicista. So riconoscere numerosi pezzi e artisti differenti. Mi attraevano queste persone, ho lavorato con la filarmonica di Los Angeles per molti anni e ho incontrato grandi musicisti, avendo la possibilità di frequentarli, di condividere pensieri, di sviluppare relazioni e affinare il mio gusto. Sono cresciuto nelle scuole canadesi, quindi la poesia e la letteratura canadese sono state una parte fondamentale della mia formazione, e hanno continuato a interessarmi nel tempo…non più tanto oggi. Ho letto molti racconti. A dire la verità lo facevo, ma sono circondato dai libri. Mia moglie legge due libri a settimana e si ricorda tutto, così abbiamo l’opportunità di parlarne: è qualcosa di più di una passione comune. Invecchiando è più faticoso sedersi e leggere, non so perché. Ascolto molto la musica.

N. L. - Come nasce e si sviluppa l’intero processo creativo e progettuale, in quale modo lavora e interagisce con il suo team?
F. G. - Il processo è costruito a metà con il cliente. Il cliente ha bisogno di budget, di programmi... i motori della progettazione. I miei colleghi lavorano con me, capiscono i miei pensieri e procediamo intuitivamente in risposta a questi elementi. È difficile da spiegare, è un’ispirazione intuitiva. In un’altra occasione ho provato a spiegare come puoi arrivare ad Abu Dhabi, dove non esiste un contesto, e creare tu un contesto a partire dalla tua mente, senza avere la possibilità di conoscere queste persone personalmente, perché non ti invitano a casa loro. È come cercare la tua strada nel buio, cercando di capire chi sono, cosa si aspettano, cosa piace loro, andando incontro a queste esigenze in modo intuitivo. Ha funzionato molto bene. È una sorta di miracolo, credo, il fatto che siamo riusciti a fare qualcosa che a loro sia piaciuto. Come riuscirci senza mai discuterne? Ma è stato così. I miei colleghi sanno, credo, come lavorare con me, e proviamo le cose insieme: realizzano per me modelli a partire dalle idee. Si procede per piccoli passi, lentamente, ma riusciamo a rispettare i tempi. Siamo veramente orgogliosi di rientrare nei budget, di costruire edifici che sono economici. Credo che la gente non capisca questo aspetto del mio lavoro. Chi non ha esperienza guarda le mie architetture e crede che siano molto costose, ma non lo sono. Sotto il profilo tecnico, dedico molto tempo ai dettagli, le persone non lo capiscono quando guardano il mio lavoro, non capiscono cosa c’è dietro e cosa davvero facciamo qui.

N. L. - Lei ha dato vita a un modo unico di progettare l’architettura. È stato un processo che si è sviluppato gradualmente nel tempo, o ci sono stati momenti specifici che hanno cambiato il suo modo di concepire l’architettura, portandola ad uno stadio successivo?
F. G. - Credo che tutti i processi siano evolutivi, e non credo che il mio metodo di lavoro sia unico. Credo che, a causa dell’esperienza maturata negli anni, oggi io lavori molto più velocemente di prima. Ho portato anche il mio gruppo a lavorare più velocemente, perché con gli anni sono diventato impaziente.

N. L. - Lei e il suo studio mi fate pensare agli architetti del passato, quasi filosofi, che sovrintendevano ai loro studi-laboratori. Lei pensa che gli architetti del futuro manterranno questa prospettiva ampia o saranno portati a specializzarsi così come è già accaduto in altre professioni? E qual è l’immagine che ha di se stesso?
F. G.
- Ho recentemente tenuto una conferenza proprio su questo argomento. Secondo me l’architettura è un’impresa di servizio, al servizio di qualcosa. Anche gli scienziati sono al servizio dell’umanità. Credo che tutti siamo al servizio di qualcosa, e se abbiamo chiaro questo non è difficile. Non c’è bisogno di infilarsi in discussioni esoteriche sull’essenza e il significato delle cose - interessanti come giochi di parole e rompicapo intellettuali. Nel mio lavoro non riesco a procedere così. Non parlo di involucri, di pelli, e la filosofia…La filosofia per me è molto più semplice: si tratta di portare le cose a termine, di concretizzare il lavoro. Ma la materia mi interessa, leggo qualcosa al riguardo. Ha un risvolto interessante, divertente, provocatorio, ma che riguarda gli aspetti marginali del processo costruttivo.

N. L. - Chi pensa al suo lavoro come a un esempio perfetto di “architettura virtuale in 3D”, potrebbe rimanere molto sorpreso nello scoprire quanto lavoro manuale, quasi artigianale, ci sia nel vostro processo progettuale. Cosa pensa e che uso fa dell’interazione tra la creazione di modelli e il disegno grafico in 3D? F. G. - Uso la grafica 3D, ma non per presentare i progetti come fanno le nuove generazioni. Il fatto è che non mi piacciono le immagini del computer. Secondo me non rendono l’intera coordinazione del progetto, e sono fredde. Uso il 3D per articolare i dettagli, per fornire dati precisi alla produzione, cosicché possano costruire. Per questo lo uso…e per assumermi maggior responsabilità all’interno dell’intero processo, per non delegare ad altri, per seguire attraverso i dettagli tutto l’iter di un progetto fino al suo completamento, questa è la nostra politica e così lavoriamo con tutti i subappaltatori. Credo che oggi ci assumiamo più responsabilità di quanto non avvenga normalmente nel processo edilizio. Tutti i buoni progettisti lo fanno. Devono assumersi maggior responsabilità. Così mi sento più vicino al mio amico Frank Zappa.

N. L.
- Come si immagina il futuro? Web, digitale e grafica 3D, oppure carta e modelli, o ancora un nuovo equilibrio tra questi?
F. G. - Credo, come in ogni storia, che qualcuno scoprirà come usare il computer per rappresentare al meglio immagini e cose, magari senza il disegno. Credo che ci sarà un processo progettuale e costruttivo senza carta, come è stato per il boeing 777 realizzato senza bisogno della carta. Dal punto di vista della produzione credo che si arriverà a non utilizzarla più. È un metodo più veloce, molto più preciso, è meglio per i progetti, fa risparmiare denaro, salva da scontri tra le parti coinvolte. È cristallino. L’industria delle costruzioni, quando riceve i dati, sa esattamente come dovrà costruire. Si eliminano i fraintendimenti. Ciò che facciamo con la nostra tech company è esplorare l’idea di restituire il controllo del progetto all’architetto. Questo per farne arte, per convertirlo all’interno di begli spazi, usando la grafica 3D come gli altri strumenti del disegno. Credo che sia inevitabile: arriverà un nuovo Michelangelo. Nella misura in cui ci sono alcuni, come Greg Lynn, che danno il via. Non è ancora successo. Siamo agli inizi, ma succederà.

N. L.
- Qual è il suo approccio nelle relazioni con i clienti? Come vive il rapporto con loro? Quanto condivide del processo progettuale? Coinvolge il cliente nel suo processo creativo? E quanto lo ascolta?
F. G. - Coinvolgiamo i clienti in tutto, mostriamo loro tutto e li ascoltiamo sempre. I nostri clienti lo possono confermare.

N. L. - Il Guggenheim di Bilbao, una delle architettura più all’avanguardia e provocatorie mai costruite, ha cambiato il destino di un porto in decadenza e di una città ex-industriale facendone una meta turistica a livello mondiale, e riportando al tempo stesso l’architettura al ruolo di principale motore culturale. Aveva previsto che la sua architettura avrebbe dato il via a una rinascita urbana ed economica?
F. G. - No, non lo avevo fatto. Ma era questo che loro chiedevano. Il cliente lo disse, chiedevano esattamente questo. Mi ricordo che lo chiesero anche nel caso della Sydney Opera House, che poi produsse quegli effetti, e costituiva quindi un precedente. Abbiamo avuto molta fortuna, perché la stessa cosa è avvenuta con la Disney Concert Hall, con il Millennium Park a Chicago, e spero che sarà lo stesso con la Beekman Tower che stiamo realizzando adesso in Downtown Manhattan: la Beekman vuole essere un generatore, un volano economico, di riscontri positivi per la comunità, non solo per il developer.

N. L.
- A proposito del Millennium Park di Chicago. Questo intervento ha cambiato il rapporto tra la città e il suo lago - e lei è stato molto coinvolto in questa trasformazione urbana. Il progetto di un parco giochi a Battery Park, Downtown Manhattan è un altro esempio di architettura e design urbano intesa come una forma d’arte da “usare”. Come interpreta il rapporto tra architettura e urbanistica?
F. G. - Credo che l’urbanistica nel XIX secolo fosse più semplice, perchè c’era un consenso che oggi non abbiamo più. La democrazia ha portato più libertà, e abbiamo maggior libertà di espressione, maggior espressione individuale, più scelte individuali. L’unità della città del XIX secolo si è frammentata in un collage di molti pezzi, di molte parti, differenziazioni - e buona parte di queste non sono di qualità. I modelli di progetti urbani di Le Corbusier, di José Louis Sert, in realtà non hanno funzionato per la nostra epoca. Non li possiamo usare oggi, perché sono troppo grandi in un’epoca di affermazione dell’individualità. Vedo che costruiamo un edificio alla volta, come è successo a Bilbao. Quando è stato costruito il Guggenheim di Bilbao la città aveva un equilibrio all’interno dei contrasti urbani. Oggi tutto è cambiato rispetto a quando ho costruito l’edificio. Il contesto è diventato confuso, è stata una sorta di disillusione. La città ha avuto molto successo a causa di un solo edificio… Non so cosa abbiano fatto. La città e le sue parti hanno perso il loro carattere. Prima aveva un’immagine coerente, con il mio piccolo fiore al centro, ma ora, ora è molto più simile a una città caotica. Sarà probabilmente così per una trentina d’anni, poi arriverà qualcuno e troverà la soluzione.

N. L. - I seguaci, o epigoni, sono sempre stati un problema. Nel suo caso, si potrebbe dire che Gehry è quasi impossibile da imitare. Molti hanno provato però e continueranno a farlo ma i risultati possono essere terribili. È a causa di una carenza di umiltà che così tanti architetti cercano di seguire un percorso così difficile? È a causa di una carenza di sensibilità? Quali suggerimenti si sente di dare ai giovani architetti affinché trovino la “loro strada”?
F. G. - Siate voi stessi, e abbiate cura di quello che fate, una cura profonda, perché nessun altro lo farà, e questa cura si vedrà nel vostro lavoro. Questo è tutto quello che dovete fare. Los Angeles, Venerdì 13 Agosto 2010

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